Napoli, al Bolivar, successo per “Sagoma monologo per luce sola”, di Fabio Pisano, con Nando Paone

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foto di Ersilia Marano

“Sagoma monologo per luce sola” è il risultato di una scrittura nata nel pieno della pandemia, quando il silenzio delle sale e l’assenza del pubblico hanno spinto il teatro a ripensare sé stesso.

Fabio Pisano firma un testo che raccoglie i pensieri e i flussi creativi di quel tempo sospeso, trasformandoli in materia scenica, affidata alla regia di Davide Iodice.

Andato in scena il 5 aprile al Teatro Bolivar di Napoli,” Sagoma”  ha come protagonista un intenso Nando Paone, affiancato dalla presenza scenica, silenziosa ma essenziale, di Matteo Biccari.

Non c’è sipario che si apre, nessun buio in sala, nessun segnale preciso che dica “ora inizia”. Sul palco, un uomo sale su una scala per regolare un faro; un altro, nascosto tra le quinte, mormora tra sé. E mentre ci si domanda se si stia ancora provando o se si sia sbagliato orario, si realizza che Sagoma è già cominciato. È già tutto lì: teatro che si attiva nel non-detto, che si consuma nell’apparente silenzio.

Al centro della scena, Nando Paone. Attore solo in scena, ma mai davvero solo. Accanto a lui, presenza fondamentale, Matteo Biccari: tecnico delle luci, ma in Sagoma molto di più. Un giovane che non ha bisogno di parole per comunicare. Ogni suo movimento, ogni gesto con cui plasma l’ambiente luminoso, diventa parte di una drammaturgia invisibile ma potentissima. La sua è una risposta silenziosa ma chiarissima, fatta solo di luce.

L’attore desidera farsi sagoma, dissolversi in una figura priva di volto, priva di ego. In questo slancio verso l’invisibilità, trascina con sé anche il tecnico, rendendolo testimone – o forse complice – dei suoi pensieri sparsi, delle sue fragilità, delle sue contraddizioni.

Tra i due non c’è dialogo nel senso classico, ma una forma di intesa sottile e profonda, fatta di ritmo, di gesti, di assenze.

Paone dà voce a pensieri disordinati, emozioni irrisolte, mentre Biccari scolpisce lo spazio con il buio e con la luce.

Entrambi si spogliano della propria identità quotidiana e si offrono alla scena come strumenti puri, essenziali. Non interpretano un ruolo: si mettono a servizio di qualcosa di più grande – il gesto artistico. Sono insieme creatori e ingranaggi di un dispositivo teatrale che funziona nella misura in cui si dimentica di sé.

Sagoma è un atto unico di 55 minuti – “tanto basta ed avanza per quello che devo dire”, afferma Paone. E davvero, tutto è contenuto in quel tempo asciutto e denso, dove ogni pausa, ogni parola sussurrata ha un peso specifico altissimo.

In Sagoma, narrazione e pensiero coincidono. Non c’è trama, non ci sono colpi di scena. C’è un uomo, un attore che confessa l’ansia che lo assale ogni volta che mette piede sul palcoscenico, che non vuole essere riconosciuto, ma solo guardato per ciò che è: una sagoma, una figura sfumata, presente eppure elusiva. Una voce che si offre, ma senza pretendere attenzione. “La distanza non è un alibi”, sussurra. “La vera arte è senza scopo”.

Sagoma parla di una vita che è stata un’ombra.

“Se una storia non ha faccia, può essere la storia di tutti”.

E proprio in questa rinuncia allo scopo, in questa sospensione dell’azione e dell’identità, si apre uno spazio inedito: uno spazio intimo, libero, autentico, dove l’attore può smettere di recitare e semplicemente esserci. Qui non si esibisce nulla, e proprio per questo, tutto accade. È un’esperienza rarefatta, essenziale, in cui anche lo spettatore è sollevato dal dovere di comprendere: può rilassarsi, respirare, lasciarsi attraversare. Nella penombra, tra luci d’emergenza – più numerose dei posti a sedere – si è protetti, avvolti, forse anche un po’ messi a nudo.

Attore e tecnico si muovono senza sfiorarsi, ma sono completamente sincronizzati. Due solitudini che si osservano da lontano, eppure profondamente connesse. “Ci sono più luci d’emergenza che posti a sedere”, “si sta appesi al di là di stare in aria”, dice la voce in scena. E questa frase, più di tutte, cristallizza il senso profondo dello spettacolo: la precarietà del mestiere teatrale, ma anche della condizione umana. Stare in aria, per un attore, non è solo un mero atto fisico: è stare sospesi nel vuoto tra ciò che si è e ciò che si dovrebbe essere.

Il teatro, qui, diventa assenza piena. Non ci sono musiche, né maschere. Solo voce, buio, e il riverbero delle cose non dette. Come nei fantasmi pirandelliani, anche qui la luce è rivelazione, ma anche enigma. Sagoma è il titolo, ma anche il contenuto: una figura indefinita che si muove nella penombra, una presenza che sfida la definizione. Un controluce perfetto – quello con i “controcazzi” – diventa il momento dell’abbraccio, della riconciliazione tra due uomini che finalmente si vedono. Non nei volti, ma nella fatica condivisa, nel mestiere amato.

E tutto questo accade perché a portarlo in scena è Nando Paone, un attore che qui si conferma non solo interprete, ma anche custode di una tradizione teatrale profonda, vissuta, assimilata. La sua presenza non invade, ma riempie. Porta con sé la leggerezza del comico e la densità dell’uomo, la voce dell’esperienza e lo sguardo ancora curioso di chi ama il palco come il primo giorno. Sagoma sembra scritto per lui – o forse, semplicemente, è lui. Solo un attore con una carriera lunga, generosa, capace di attraversare il dramma e l’ironia, poteva sostenere un testo così rarefatto e così vivo.

Sagoma ha dentro l’essenza di Pirandello, il vuoto eloquente di Beckett, ma anche il calore malinconico di una generazione teatrale che resiste al rumore del mondo. È il contro-spettacolo per eccellenza, come lo definisce Paone stesso: “il contro che ho sempre desiderato, il contro giusto per me”.

E alla fine, quando tutto è detto (o non detto), resta solo un criterio. Il più vero, il più semplice.

“Se piace al tecnico, allora è bello.

Ersilia Marano

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