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Sabato, 2 marzo, al Teatro Diana di Napoli si è tenuta la rappresentazione dello spettacolo “Gli onesti della banda”, messo in scena dalla Compagnia Nest, con la riscrittura di Diego De Silva e la regia di Giuseppe Miale di Mauro, liberamente ispirato a “La banda degli onesti” di Totò e Peppino.
Guidano la rappresentazione Adriano Pantaleo (Tonino), Giuseppe Gaudino (Peppino) e Francesco di Leva (il Ragionier Casoria). Tonino e Peppino sono amici da sempre e anche i loro debiti lo sono: Tonino è laureato in filosofia, ma continua il lavoro, in portineria, del padre, sposato con Angela, insegue il suo sogno e continua a scrivere il suo romanzo d’introspezione psicologica, che tutto il vicinato spaccia per romanzo giallo; Peppino, invece, ha preso la tipografia di suo padre, ma l’unica cosa che prolifera sono i debiti, che non riesce a saldare, stampando solo “i bigliettini da visita per i morti”, anche perchè si ritrova a dover pagare mensilmente il pizzo a Mimmuccio (Ernesto Mahieux), un camorrista.
Il ragionier Casoria porta a Tonino la notizia che casa sua verrà venduta, in quanto servono soldi per riparare i balconi del condominio, ma il povero portinaio i soldi per comprare la casa non li ha. Per questo motivo Casoria gli propone un affare: egli è venuto in possesso di un clichè originale e di carta filigranata per stampare banconote da dieci euro. Tonino è titubante, non sa se accettare o meno, ma spronato dalla moglie, stanca di vivere nell’umidità, si precipita da Peppino, l’amico ancora più disperato di lui e l’unico tipografo di cui si fida. Anche quest’ultimo è dubbioso, ma la speranza di essere libero dai debiti lo porta ad accettare la proposta e iniziano clandestinamente a stampare queste banconote. A smontare la felicità mista ad ansia, è la notizia che Michele, il fratello finanziere di Tonino, è stato trasferito a Napoli, nella sezione tributaria e sta indagando proprio su una banda di falsari che stampa e mette in circolo banconote da dieci euro.
Già dai primi minuti dello spettacolo, gli attori fanno scatenare le risate nel pubblico grazie alle battute, al linguaggio misto tra l’italiano troppo forbito di Tonino il filosofo e un dialetto che cerca di stare al passo coi tempi, inglobando parole straniere come ‘chic, voilà, passepartout’, storpiandone la pronuncia. Lo spazio del teatro viene sfruttato al meglio dai personaggi: chi si affaccia dalle logge stendendo i panni e chi fa la propria comparsa dal fondo della sala, camminando tra il pubblico e salutandolo come se gli spettatori facessero parte anche loro della recita.
Piccole chicche sono i riferimenti metateatrali che alludono ad un film di Totò e Peppino o che paragonano la scena ad un film.
Il ritmo della commedia è incalzante, le parole e i gesti si fanno via via più veloci, in un crescendo che va dalla paura di perdere tutto, all’ansia di venire scoperti. Il tutto rallenta verso la fine, quando Casoria ci induce ad un momento di serietà, avvisandoci che il tempo della commedia è finito. Tonino e Peppino vogliono tirarsi fuori perchè la paura di essere scoperti e arrestati è troppa, ma il ragionier Casoria li rassicura, dicendo di avere le spalle coperte e poi li minaccia, in quanto è proprio Mimmuccio a coprirgli le spalle e nessuno dei due si farebbe scrupoli a trasformare la commedia in tragedia.
Il finale amaro era sotto gli occhi del pubblico dall’inizio: gli spazi recintati che rappresentavano la portineria di Tonino e la tipografia di Peppino diventano poi le sbarre della loro prigione. I due si erano finalmente resi conto dove li aveva portati quel pizzico di disonestà, mostrato per necessità. Si liberano dal peso e dal senso di colpa, proprio quando la libertà non ce l’hanno più. Per loro è la liberta e l’onesta d’animo ciò che importa: la parola “Liberi” illumina lo sfondo della scena, mettendo in ombra tutto il resto segnando la fine della rappresentazione.
Maria Anna Mazzei